Di seguito, riportiamo alcune domande poste alla regista Tana Gilbert in merito al suo film in concorso Ninguna Estrella (No star).
Che tipo di lavoro hai fatto sui materiali d’archivio per il tuo film?
Il film si costituisce come un gesto di rappresentazione che non ha maggiori pretese se non quella di sollevare interrogativi sulla registrazione del materiale domestico, e sul modo in cui possiamo dare una svolta di significato a quello sguardo che voleva lasciare una traccia del quotidiano. Mantenere e riprodurre le imposizioni della famiglia in un sistema patriarcale provoca disagio e sofferenza, anche se abbiamo creato pratiche per nasconderlo. Per questo, l’obiettivo principale dell’opera è sottolineare l’ordine imposto nella vita familiare: la reclusione che noi donne viviamo quando siamo madri e decidiamo di stare a casa a crescere i figli, il sacrificio nel lavoro che esonera gli uomini dalle responsabilità genitoriali e domestiche e le dipendenze a cui siamo esposte in questo contesto. Questo film fa a meno di una sceneggiatura e cerca di sperimentare metodologie produttive che mettano in evidenza l’importanza del montaggio come processo di scrittura, ma anche come canale per le emozioni che proviamo nella realizzazione dei nostri film.
In ogni narrazione scolpiamo i nostri pensieri, quindi ciò che consideriamo reale cessa di essere così evidente. Lo stato di confusione che implica l’affrontare contemporaneamente la maternità, l’incalzare dei tempi e le infinite possibilità di connessione tra le immagini, ribadiscono che la vita personale, l’amore e il cinema sono impossibili da separare. Cecilia è la grande autrice di queste immagini e il mio compito è stato quello di risignificare ciò che lei sceglie di considerare fondamentale per la sua vita quotidiana. Forse questo film potrebbe essere un esercizio di “cartoline”, un dialogo cinematografico di chi prende l’archivio e gli dà un nuovo significato. Un invito per chi dovrà affrontare questo problema in futuro a trovare le proprie risposte alle stesse domande che rimangono negli anni.
Nel film, lasci liberi gli home movies di mostrarsi, senza interferenze di colonna sonora o di voce off. Che valore assume quindi il testo che riporta la conversazione con la protagonista?
Il testo che esprime l’enunciazione in prima persona di Cecilia vuole esplorare l’idea della nostra maternità come disposizione psichica. L’obiettivo è generare un racconto introspettivo e silenzioso che rappresenti le nostre soggettività. Il dialogo tra noi è ambiguo e cerca di provocare i limiti che si stabiliscono tra l’esperienza di Cecilia nell’archivio, la reinterpretazione che io faccio nel lavoro con il montaggio e i punti in comune di entrambe rappresentati da un testo del presente. L’immagine esplora la relazione corporea che si stabilisce con lo spazio interno della casa e con i personaggi. Uno spazio sicuro che protegge e ripara l’educazione, ma che allo stesso tempo isola. La ricerca visiva dell’archivio enfatizza l’incontro con i limiti dello spazio, e la camera diventa un’estensione fisica che porta con sé il corpo della persona che registra, facendoci sentire il suo stesso sguardo, il suo movimento e le sue attenzioni. Ecco perché i momenti in cui il volto di Cecilia appare nel film diventano rilevanti, sono pochissimi e sono legati alla sensazione di disagio che trascende nella vita della protagonista.
Vuoi suggerire ai giovani alcuni titoli di found footage che sono stati importanti per la tua formazione?
Uno dei riferimenti più importanti che mi ha accompagnato durante il processo di No star è stato Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi. Questo film è costruito con materiale d’archivio trovato dalla regista. All’età di sette anni sua madre, Liseli, si è suicidata e questo materiale è un’opportunità per conoscere nuove dimensioni della sua persona. Le registrazioni in 16 mm si articolano anche con gli archivi delle lettere e dei diari della madre, in cui racconta il suo rapporto con la vita domestica, il matrimonio e la depressione. Viene presentata una narrazione fuori campo in cui le lettere ritrovate vengono reinterpretate e indirizzate a diversi membri della famiglia. L’aspetto interessante della proposta è che Alina Marazzi interpreta la voce fuori campo di Liseli.
Innanzitutto, c’è un lavoro cronologico nella narrazione del film che attraversa le diverse fasi della vita della madre: l’adolescenza, l’amore, la maternità, la malattia e il disagio esistenziale che si protrae fino alla morte. Questa caratteristica è stata considerata per il lavoro narrativo del cortometraggio. In No Star l’accento è stato posto sull’osservazione del passaggio del tempo nel materiale d’archivio e sulla trasformazione di Cecilia. Marazzi propone una riflessione intergenerazionale attraverso l’operazione cinematografica, che contiene una prospettiva di genere trasversale. Interpretando la voce fuori campo che rappresenta la madre, la regista genera un incrocio di soggettività in cui si manifesta apertamente una genuina empatia per la sua non conformità alla vita. La regista tenta di riconciliarsi con la figura di una madre assente e di rivendicarla come donna. Viene affrontato l’impatto sulla salute mentale di una donna che sente di non essere in linea con i mandati familiari dell’epoca. A poco a poco il film smonta la romanticizzazione della maternità, la figura della madre che si sacrifica, e in qualche modo rafforza il fatto che l’amore romantico non è sufficiente a sostenere la vita familiare.
Infine, il lavoro di montaggio su questo film è stato fondamentale per scoprire i gesti che avrebbero definito No Star. Ci sono alcuni momenti in cui il rallentamento del materiale viene utilizzato per rappresentare le emozioni che traboccano dalla protagonista. Immagini di lei a diverse età anticipano le crisi che verranno.
Poi, un film intitolato “Diario de Pamplona” di Gonzalo Egurza. Questo cortometraggio esplora le potenzialità dell’immagine d’archivio attraverso la sua associazione, la ripetizione e il rallentamento. Attraverso immagini Super 8, fotografie e il dialogo di una coppia in un testo, il film costruisce la relazione di due persone, una coppia di anziani sposati, che sono emotivamente dipendenti, espone la memoria della perdita, lo stalking e le complessità dell’amore romantico.
Il Festival di San Fermin è l’ambientazione della storia e, attraverso i diari di viaggio, si costruisce un dialogo che espone l’indifferenza e la noia che ogni personaggio prova per l’altro. C’è un contesto patriarcale che determina questa conversazione e la relazione di questa coppia eterosessuale, dove viene esplorato un senso di violenza, rappresentato attraverso la giustapposizione delle immagini della fiesta di Pamplona: uomini, sangue e tori.