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Archivio Aperto XVII edizione

Poetry, Diaries, Novels. Katja Petrowskaja

Poetry, Diaries, Novels. Katja Petrowskaja

A cura di Giulia Simi & Elena Pirazzoli

 

Con il sostegno di Settore Biblioteche e Welfare culturale del Comune di Bologna nell’ambito del Patto per la lettura di Bologna

Sponsor: Gruppo Hera

In collaborazione con Adelphi

 

Continua in questa edizione la sezione Poetry, diaries and novels. Film di famiglia e letteratura, che ogni anno propone un incontro con uno scrittore o una scrittrice che più di altri abbiano messo a fuoco il tema della parola come indagine sulle storie personali intrecciate alla storia collettiva. I frammenti di vita compongono così il mosaico della storia: passata, presente, futura. Nella loro ricerca, spesso i media di registrazione della realtà – fotografia, cinema – scorrono sotterranei: evocati, indagati, interrogati. 

 

L’invito di quest’anno è andato a Katja Petrowskaja, scrittrice tedesca di origine ucraina, che ha esordito nel 2014 con Forse Esther, tentativo di ricostruzione delle proprie vicende famigliari dolorose e ramificate tra Ucraina, Polonia, Russia, Austria, Germania, tra mondo ebraico e mondo sovietico, tra Babij Jar/Babyn Yar e Mauthausen, confrontandosi con i traumi lasciati dalle guerre sui corpi, la psiche, le geneaologie. I racconti, i ricordi tramandati necessitano di prove per uscire dall’incertezza, dalle ricostruzioni segnate dai “forse”: le fotografie si offrono così come auratici appigli nella ricerca.

 

Katja Petrowskaja. Osservare è un modo di porsi

 

«Le immagini ci sommergono da ogni parte: dai giornali, dai libri, dai manifesti pubblicitari, dalle esposizioni, dallo smartphone e da Internet. Parlare di una singola foto rappresentava da parte mia il tentativo di fermarmi e soffermarmi. Volevo mettere un freno all’inflazione delle immagini, non per il mondo intero, ma per me, come se l’osservazione fosse un processo lento, un po’ antiquato». Così Katja Petrowskaja, scrittrice tedesca di origine ucraina, descrive il processo che l’ha portata per sette anni a scrivere ogni tre settimane un testo su una fotografia a sua scelta, poi pubblicato sull’inserto culturale della FAZ, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Fotografie emerse dagli archivi famigliari, trovate nei mercatini delle pulci, in cataloghi o esposizioni d’arte. Per Petrowskaja quello con l’immagine è un incontro, come se fosse una persona, perché delle persone reca le tracce: che siano il soggetto ritratto o la mano che scatta. E da quell’incontro nasce l’ecfrasi, ovvero la descrizione narrativa dell’immagine. Il termine deriva dal greco e significa «descrivere con eleganza» in quanto indicava, nell’arte retorica, la capacità di descrivere luoghi e opere d’arte con uno stile talmente alto da gareggiare in forza espressiva con l’oggetto stesso della descrizione. Non si tratta solo di analisi dell’immagine, ma di un’interpretazione che nasce dall’osservazione.

 

Cinquantasette di questi incontri con le immagini, divenuti ecfrasi, sono raccolti nel libro La foto mi guardava (Adelphi, 2024) sulla cui copertina, sia nell’edizione italiana che nell’originale tedesco, appare Maya Deren, regista sperimentale, ma anche teorica del cinema, danzatrice, poeta, studiosa della cultura vudù. Petrowskaja e Deren (nata Eleonora Derenkovskaja) condividono la città di nascita, Kiev, l’origine ebraica e la capacità di attraversare la realtà trasformandola, grazie a uno sguardo trasfigurante.

 

«Ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio», scrive Petrowskaja osservando la fotografia che ritrae due bambini sul porto di una città del Mar Nero. Guardano qualcosa, ma si trova fuori dall’inquadratura, non sapremo mai quale è il motivo del loro stupore. Il loro sguardo attira il nostro e spalanca domande. Come scrive Roland Barthes ne La camera chiara, la fotografia è quello che «è stato»: un istante trattenuto da un occhio meccanico, impresso tramite un procedimento chimico e capace per questo di superare quel particolare momento, estendendosi nel tempo. Con il digitale, questa possibilità sembra essersi espansa esponenzialmente. Trattenere un istante e dargli una possibilità di esistenza ben oltre il suo presente implica che altri sguardi, lontanissimi nel tempo, ma anche nello spazio, potranno posarsi su di esso, su quello che lo sguardo del fotografo ha colto allora, che a volte non è altro che un altro sguardo, rivolto verso la camera o verso un oggetto misterioso. Osservare le immagini diventa allora un intreccio di sguardi attraverso il tempo. Una relazione tra persone, tra vissuti simili, contrapposti, assonanti. 

 

Elena Pirazzoli

 

Biografia dell’autrice

 

Katja Petrowskaja è nata e cresciuta a Kiev. Ha studiato letteratura e studi slavi presso l’Università di Tartu (Estonia). Nel 1994-95, grazie a una borsa di studio negli Stati Uniti, ha frequentato la Stanford University e la Columbia University;, nel 1998 ha conseguito il dottorato presso l’Università statale di Mosca. Nel 1999 si è trasferita a Berlino dove ha iniziato a lavorare per diversi media russi e tedeschi (tra cui la “Neue Zürcher Zeitung”, “taz” e la “Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung”). Il libro d’esordio Forse Esther (tradotto da Ada Vigliani, Adelphi, 2014) è stato insignito del Premio Bachmann (2013) e del Premio Strega europeo (2015).

Nell’ottobre 2015 ha realizzato un progetto presso l’IFK – Internationales Forschungszentrum Kulturwissenschaften – Centro internazionale di ricerca per gli studi culturali di Vienna dal titolo «Alles, was der Fall ist» («Tutto ciò che accade», che riprende  l’incipit del Tractatus Logico-Philosophicus di Ludwig Wittgenstein) sulla relazione tra le fotografie e gli osservatori. Nel 2022 ha pubblicato Das Foto schaute mich an, tradotto sempre da Ada Vigliani per Adelphi nel 2024 come La foto mi guardava.